Lettera n. 646

Mittente
Fortini, Franco
Destinatario
Giudici, Giovanni
Data
1 gennaio 1964
(Nella copia definitiva in APICE è inserita la parte iniziale di una precedente lettera, introdotta dalla nota aut.: «Ecco la prima pagina che avevo scritto ieri:».)
Luogo di partenza
[Milano]
Luogo di arrivo
[Milano]
Lingua
italiano, latino, francese, inglese
Incipit
Caro Giudici, mi pare che dobbiamo compiere uno sforzo di massimo distanziamento dai particolari e subito dopo di valutazione delle possibilità reali.
Explicit
Penso a un volume annuo o biennale di contributi e di testi, ma più ancora alla preparazione costante e 'clandestina'. | Per oggi basta. | Tuo Franco F.
Regesto
A Fortini pare necessario uno sforzo di massimo distanziamento dai particolari per poi valutare le possibilità reali. Anche se aveva già scritto due o tre pagine, inizia da quelle di Giudici [30 dicembre 1963, #32], che sostiene che, se si contesta la società in cui si vive e l'agire è letterario, va contestato l'istituto letterario di quella società. Prima, però, occorre distinguere diversi tipi di "negazione": 1) metafisico-religiosa 2) hegeliana (momenti della fenomenologia dello Spirito) 3) marxista (hegeliana quanto all'autocoscienza, sociologico-obiettiva quanto ai conflitti reali). In virtù della sua posizione storico-sociale, nell'intellettuale i diversi momenti o moventi della negazione tendono a coesistere. Per la tradizionale origine etica della mozione alle lettere, le varietà italiano-contemporanee di intellettuali sono riconducibili a quattro gruppi, secondo le opposizioni fra negazione metafisico-religiosa e negazione storicistico-sociologica e fra modo quietistico-contemplativo e drammatico-attivo: 1) negazione metafisico-religiosa attuata in modo quietistico-contemplativo (Carlo Bo, ecc.); 2) negazione drammatico-attiva (Giudici); 3) negazione storicistico-sociologica o laica attuata in modo quietistico-contemplativa (la maggior parte della letteratura eticamente "radicale" e in parte Sereni); 4) negazione storicistico-sociologica in chiave drammatico-attivistica (Fortini). La disputa europea 1945-1950 sull'engagement aveva portato a due posizioni estreme tra coloro che non credevano all'autonomia delle lettere: una (vittoriniana) affermava il carattere contestatorio dell'espressione letteraria e poetica in quanto tale e faceva coincidere il criterio di valore con quello della novità, sostituendolo a quello di tendenza (vecchia equazione surrealista); l'altra affermava che il carattere contestatorio fosse inseparabile da un certo ordine di forme e/o contenuti (Lukàcs). Giudici relega la questione tra quelle di "poetica" e implicitamente opta per la prima soluzione (arte com engagement-contestazione naturale, con Vittorini, 1948), credendo che nella sfera critico-ricognitiva le cose siano meno scivolose. In realtà, una decisione su questo punto ha conseguenze grandissime. Si tratta di sapere se si debba o no accentuare la separazione dei linguaggi "creativi" (poetici, narrativi, drammatici) da quelli critico-saggistici; se, per usare una distinzione di per sé assurda ma utile di Barthes, sia opportuno e possibile distinguere tra écrivains e écrivants; se, insomma, il "momento" letterario abbia ancora il diritto di esistere (non in una prospettiva estetica, ma di "forma letteraria" e convenzione allusiva, che, se non si considera solo l'aspetto soggettivo del fare poetico, diventa elemento essenziale della letteratura come istituzione in tutti i suoi gradi, dalla poesia di Montale al risvolto editoriale). Se si risponde no, l'ideale del discorso sui temi di letteratura è quello di una literary scolarship (allora negli scritti creativi la contestazione sarà endo-contestazione e basta; questa è la posizione più "moderna: di quello di cui non si può parlare si tace o si parla per metafora). Una risposta affermativa invece presuppone una totalizzazione (di origine romantica, ecc.). Le due posizioni implicano anche due diverse nozioni di "scienza". Le vicende della letteratura italiana contemporanea creativa o critica dell'ultimo ventennio si possono leggere alla luce di questa distinzione. Per rispondere, Fortini adotterà un modo pragmatico, riportando una pagina di riassunto politico scritta il giorno precedente. [inizio lettera 31 dicembre 1963] Fortini ha davanti, postillata da Sereni, una sua lettera del 16 marzo e una del sabato di Pasqua [13 aprile]. Nella prima, cercando di spiegare la situazione politico-letteraria corrente, prevedeva una neo-politicizzazione dell'industria cultural-editoriale, con estensione alle lettere della cooptazione che l'allora nascente centro-sinistra aveva già compiuto nei confronti dei settori sociologici-economisti e simili. Nel complesso gli pare di avere avuto ragione. Nella seconda dava suggerimenti a «Q.[uesto] e A.[ltro]», proponendo, insieme a un "centro-studi", il suo ingrandimento, con un "nocciolo" duro e una polpa «panetton-egemonica». Naturalmente, le cose stanno in modo più semplice o in modo più complicato (per Fortini, si sa, è indiscutibile cominciare dall'universo). La progressiva razionalizzazione che caratterizza il capitalismo europeo comporta, in Italia, la fine del "miracolo" tumultuario e pittoresco alla Pasolini e Fellini, con la connessa mobilità sociale. Se i monopoli prevarranno sull'industria più arretrata (tutto fa pensare di sì, appoggiati come sono da socialisti e comunisti), la prospettiva del Pci della compartecipazione di potere col capitale non appare utopistica. A farne le spese saranno il ceto medio inferiore e il salariato, per la compressione dei redditi e della mobilità sociale, ma soprattutto una crescente atomizzazione sociale, anzi la sostituzione molto probabile di forme pseudo-collettivistiche alla presa di coscienza politico-mondiale. E la durata del processo di razionalizzazione, dato lo sviluppo diseguale italiano, sarà tale «da spremere, da triturare» una generazione, in tragedie ridicole (trasporti), falsi progetti (la scuola), battaglie inesistenti (divorzio). Ci si rallegrava troppo presto della resistenza italiana alla "americanizzazione"; ma si guardi alla situazione francese, ancora nostro immediato avvenire. Tuttavia si cominciano a vedere le tracce di una ricostruzione della classe salariata e una neoformazione politica. Giudici nella sua lettera ha detto bene che l'azione possibile e raccomandabile dev'essere contestazione aperta dei «singoli momenti fenomenici dell'istituto letterario in quanto mistificato», ma assumendo il "campo" di quello. Al dilemma formulato sopra si risponde, allora, di non dimenticare che l'ordine creativo e critico sono legittimi solo in cospetto della divisione del lavoro e della specializzazione. Non illudersi di poterle, formalisticamente e quindi idealisticamente, superare, anche se la prospettiva comunista mira al loro superamento radicale. Rifiutare qualsiasi sogno di immediatezza e comunicazione diretta, «buscàr el levante por via de ponente» (Cristoforo Colombo). Umanesimo sì, ma come pugnale sotto i panni, doppio gioco. Allo "scientifismo" di Scalia, Guglielmi, Eco non si deve opporre un linguaggio da Cronache della vita breve o Mani di Radek, ma forme razional-comunicative tecnicamente sicure, cosicché lo sforzo di trasmissibilità, non specialismo, larga udienza ecc. sia magari non direttamente percepibile, ma efficace. Inoltre, il sofisma della poesia come contestazione naturale andrebbe respinto non tanto internamente al discorso poetico quanto esternamente. Fortini ha sempre pensato che un'operazione letteraria di lungo respiro debba fondarsi su un fittissimo discorso critico e su una selezione rigorosissima di testi creativi, per fare da "scorta" alla poesia e essere utile anche in sua assenza. Sull'imperatività di una presa di posizione politica rivoluzionaria suggerisce cautela, per non scambiare per essa la tendenza (tipica degli intellettuali piccolo-borghesi affamati di universalizzazioni) a ideologizzare a perdita d'occhio. In questi casi la prassi vale più della grammatica. Non utilizzare la koinè letteraria, da trattare con ironia e ipocrisia, ma rinnovare le forme dell'organizzazione letteraria anche attraverso il recupero di forme obsolete, come il "seminario privato" tipico delle "arcadie" e delle accademie e efficace per i giovani. Oltre alla preparazione costante e "clandestina", imprescindibile, anche un volume annuo o biennale di contributi e di testi. [1° postscriptum] Il disordine, la scorrettezza sintattica, l'allusività sbadata (voluti) di queste lettere sono indicativi della strada da percorrere: imparare a scrivere. [2° postscriptum] L'«inverosimile» scritto di G.[iovanni] Guglielmi su 'Rendiconti' – «les ravages des scalias» – è una banalità di provenienza Blanchot-Sarraute. [3° postscriptum] Occorrerebbe schedare le ricerche dei settanta e più collaboratori di «Q.[uesto] e A.[ltro]», «Rendiconti», «Nuova Corrente», «Paragone», «Cratilo», ecc. Ancor più urgenti, i rapporti con gli studenti universitari e con gli stranieri (fino a Viet-Nam, Perù, Canada, Cina), per il controllo della traducibilità del discorso. [4° postscriptum] “Il faut bronzer la vertu” (Saint-Just): con discrezione, occorre scrivere «quei riassunti», cercando di evitare la noia. [«altra nota»] Nessuna "fatalità" nella «mens sereniana», solo la difficoltà a mutare la sua personalità. Sereni non vuole avere una data figura, e fa benissimo. Ha un'idea di se stesso e dell'uomo (funzione, letteratura, poesia), sente minacciati i suoi valori. Ma obiettivamente aiuta i distruttori di quei valori, circondandosi di persone sbagliate. Questi dialoghi, quelli con Sereni, Romanò ecc. sono dialoghi di morti; cioè "operazioni politiche", ma la vita, il calore, il sangue sono da sempre altrove. «Per mio conto; posso maledir quanto voglio, ma non ho altri interlocutori che voi e voi nessun altro fuor di me». [In calce alla penultima p.] «Più vivo – ad altri appartenendo sei di quanto – saresti appartenendoti»: sono tanto brutti quanto «liberi non sarem se non siam uni»: «eroicamente brutti, non casualmente». [p. definita «Residuo da appunti precedenti», «inutilizzabile»] Si può parlare di "establishment" solo per il «nesso» romano e per quello del «Menabò». I poteri dell'opinione letteraria sono dei Moravia, Pasolini, Debenedetti, Calvino, ecc. Il PC appoggia ancora il «corpo di "notabili" della vecchia sinistra generica e pasticciona»: Moravia, Levi, forse Piovene, ecc. Intanto, amoreggia con i Sanguineti, Eco ecc. La sua parola d'ordine è «anche noi abbiamo la nostra avanguardia, quella 'buona' e accettabile, legittima, etc.» (così Strada, Scabia ecc.; per motivi politico-pratici, riproducono ancora una volta uno dei "partiti" dell'Est europeo). Uomini come Montale, Solmi, Sereni – indipendentemente dalle singole posizioni politiche – sembrano essere stati, per formazione, incapaci di cogliere la rapidità della trasformazione. 1) Hanno creduto che certe grandi vicende politiche internazionali li riguardassero solo nel senso della "catastrofe "(Montale), della "fantascienza" (Solmi) o della "angoscia sigillata" (Sereni). 2) Han creduto che loro dovere fosse la difesa di certi valori, non la loro verifica. 3) Come molti altri, hanno accettato la favola-tipo, lo schema menzognero della reazione: i marxisti responsabili in Italia di un'età di esasperati ideologismi in cui annegava lo spirito critico. E hanno scambiato per ripresa di umano dialogo e civile il lavaggio del cervello a scala nazionale rappresentato dall'industria culturale. Sono corresponsabili di non aver detto la verità a operazioni colpevoli tipo «Il Menabò» e oggi si vedono davanti i novissimi, «belli e lustri», agitare gli stessi testi usati anni prima da gruppetti bolognesi, fiorentini o genovesi allo scopo di "spoliticizzare" la letteratura. Per poter usare nomi come Bo, Pampaloni, Piovene (autori e critici con pesantissime responsabilità ideologiche nel decennio 1947-1957), occorre molta forza. Una forza che Fortini ha visto in provincia, in alcuni esordienti. Ma i legami generazionali sono stati più forti, e allora i giovani di Firenze (Miccini, Ramat, Salvi, Pignotti), Bologna (allievi del «Verri»), Parma e altrove seguono Luzi, Anceschi, Bertolucci. Tra gli uomini della generazione sui cinquant'anni, solo Fortini ha detto che bisognava smetterla con le rivistine, resistere agli editori, avere un piano di revisione critica. Solo lui ha previsto, tra '55 e '60, il fabbisogno cultural-letterario (non editoriale!) degli italiani futuri. Ma «testis unus testis nullus».
Note

La lettera presenta 4 postscripta («PS.», «PS PS», «PP SS», «PPPSSS») e un'aggiunta ds di 13 righe sull'ampio mg dx dello stesso foglio, introdotta nella copia in APICE dall'indicazione aut. «altra nota».
La copia in APICE è formata dall'assemblaggio di quelle che in AFF sono due lettere disgiunte: una di 4 fogli con numerazione ds [1]-4, datata 1 gennaio 1964 (AFF, scatola XXVII, cartella 2, doc. n. 2) + lo spezzone iniziale di una lettera interrotta e non datata (ivi, doc. n. 1). Nella copia definitiva in APICE, quest'ultimo è inserito dopo il secondo foglio della lettera provvista di data, senza particolari adattamenti, salvo l'espunzione dell'incipit («Caro Giudici,») e della frase interrotta che segue l'ultimo punto fermo («Tutto questo è non debole ma poco invi»). L'integrazione è registrata dalla numerazione aut. [1], [2], 3, 4, 5. Alla p. 5 segue un ultimo foglio ds strappato in fondo e non numerato, non rappresentato in AFF, e contrassegnato come «Residuo da appunti precedenti» e «pagina inutilizzabile».

Testimoni
  • Milano, Centro Archivi della Parola, dell'Immagine e della Comunicazione Editoriale, Giovanni Giudici, Giovanni Giudici, Serie «Corrispondenza», fascicolo «FORTINI FRANCO»
    lettera n. 3
  • Siena, Centro Studi Franco Fortini, Franco Fortini, Franco Fortini, Corrispondenza, scatola XXVII, cartella 2, Franco Fortini a Giovanni Giudici
    lettera n. 1
  • Siena, Centro Studi Franco Fortini, Franco Fortini, Franco Fortini, Corrispondenza, scatola XXVII, cartella 2, Franco Fortini a Giovanni Giudici
    lettera n. 2
Edizioni
  • Fortini, Giudici 2019, lettera n. 15, 99-106